Al via la quinta edizione di FOTO/INDUSTRIA, Biennale di fotografia dell’industria e del lavoro, organizzata e promossa dal MAST di Bologna, con la direzione artistica di Francesco Zanot
Quest’anno la manifestazione fotografica, visibile fino al 28 novembre, ha come focus il cibo, inteso come linguaggio culturale e analizzato nel dettaglio nelle sue accezioni filosofiche, storiche, sociali, economiche e politiche. Bel lontana dalla modaiola food photography che intasa gli account social di tutto il mondo la fotografia esposta per questa Biennale bolognese lascia in testa una panoramica ben approfondita su come il food non sia solo un bisogno primario o una tangibile questione riconducibile a problematiche sociali, politiche ed economiche, ma anche e soprattutto linguaggio sensibile, materiale di comunicazione universale.
Fototeca, che espone molte meraviglie dell’archivio di Ando Gilardi legate al cibo, apre le danze presso la sede centrale del MAST, mettendo in mostra quello che era lo spirito ecclettico e stratificato di un personaggio come Gilardi che ha dialogato con la fotografia in ogni sua forma, da fotografo a studioso della natura dell’immagine, da editore a collezionista di tutto ciò che riguardava lo spettro visivo. Le sue fotografie in bianco e nero documentano la società degli anni Cinquanta e Sessanta, una società legata al cibo e indagata da lui nelle sue fotoinchieste relative al lavoro nei campi e nelle industrie. La meraviglia da wunderkammer sorprende lo spettatore nelle sale allestite con il vasto inventario dell’archivio dove si possono ammirare figurine, santini, riviste, erbari, immagini pubblicitarie, veline, scatole di latta, tutto ovviamente relativo al food. Nelle teche gli oggetti – feticci del consumismo anni Sessanta/ Settanta/Ottanta, entrati spesso nell’immaginario comune italiano – alle pareti la proiezione della loro riproduzione come still life, ad opera di Ando Gilardi che indagava non tanto l’oggetto in sé ma la sua valenza di catalizzatore mediatico, di messaggio visivo e comunicativo.
Altre dieci sono le mostre dislocate nel centro del capoluogo emiliano, tra cui Jan Groover al MAMbo con Laboratory of forms. Un focus sulla fotografa americana che parte dalle sue nature morte alla Edward Weston, frammenti di piatti, bicchieri, posate, un colore caldo che abbraccia la scena e un’ambientazione intima, sensuale in certe sue sfumature, e poi il concettualismo alla Morandi, quei ritratti di vasi, colonne, bottiglie, come sospese in una dimensione astratta, concentrate in uno spazio interiore che sa di casa. Poi ancora delle immagini private, ritratti, scampoli di corpi che il suo sguardo sembra conoscere, che astrae come le sue nature morte, a cui conferisce la stessa vicinanza ed intimità.
Schokoladenfabrik diHans Finsler, alla chiesa sconsacrata di San Giorgio in Poggiali, è un omaggio ad uno degli esponenti della fotografia oggettiva dei primi decenni del XX secolo.
Questo lavoro, infatti, è datato 1928 ed è il risultato di una commissione affidata al fotografo svizzero dalla fabbrica dolciaria tedesca Most. Finsler documenta minuziosamente le creazioni di cioccolato e marzapane facendole diventare delle opere uniche, conferendo ad ognuna di loro la vividezza del reale e la compattezza scultorea dell’opera d’arte. La tecnica usata e l’uso congeniale delle luci rendono tridimensionali questi piccoli gioielli dolciari, in linea con quello che era lo stile artistico dell’autore, promotore di un’oggettività che ha fatto la storia della fotografia. Di notevole rilievo, inoltre, il dialogo tra le immagini di Finsler con la particolare location che ospita la mostra e soprattutto le opere in essa racchiuse. Il monumentale e mistico ciclo Cattedrale di Piero Pizzi Cannella alle pareti abbraccia e definisce lo spazio interno, ne limita gli ambienti trasformando le enormi tele in moderne pale d’altare che fanno risaltare, per contrasto, la delicatezza e la sacralità degli oggetti di Finsler.
A Palazzo Fava, invece, sono esposti Bernard Plossu e Herbert List, il primo con Factory of original desires, una carrellata del continuo peregrinare in giro per il mondo del fotografo francese, il secondo con Favignana, un reportage crudamente realista dalla pesca del tonno al suo inscatolamento e conseguente commercializzazione. Plossu è sempre stato un fotografo di viaggio, concentrandosi alternativamente su un paesaggio alla Lewis Baltz o sulla vita di strada e quella sociale. In questo caso ovviamente a far da padrona è la sua rappresentazione del cibo e delle ambientazioni ad esso collegate come i diners americani o i carretti sparuti per le strade di Parigi.
Permane nella sua produzione un’evidente contaminazione umanista oltre alla ricerca costante delle geometrie urbane abitate dall’uomo. Le due mostre, entrambe in bianco e nero, sono rappresentazioni di un sentimento umano, un sentimento che in Plossu si sparge gradatamente con i suoi grigi sospesi, mentre in List gridano i sui neri, intrisi del rosso sanguigno dopo la mattanza dei tonni. Favignana risulta esteticamente e concettualmente abbastanza divergente dai lavori che hanno caratterizzato la produzione fotografica di Herbert List, sempre molto attento ad una resa visiva molto calibrata e composta. In questo lavoro invece il fotografo tedesco immerge il suo sguardo nel pathos della pesca, nei suoi umori, nel ritrarre l’uomo e il suo movimento e lo fa accompagnando l’azione e non cercando di cristallizzarla.
Di altri intenti invece si nutre Food, a Palazzo Paltroni, lavoro di Henk Wildschut, che si rende portavoce di una documentazione che sa di attivismo e critica all’industria alimentare. Le sue immagini sono spiazzanti perché vere, perché aprono gli occhi a chi consuma cibo, illuminandolo su cosa ci sia realisticamente dietro alla sua produzione. Dagli allevamenti massivi, alle serre in cui vengono riprodotte le condizioni ideali per accelerare la crescita delle piante, alle ricerche nei laboratori delle Università, tutto parla di una tecnologia sempre più sviluppata e sempre più meccanizzata, per sostenere una produzione ipertrofica e ancora in costante aumento.
Maurizio Montagna con Fisheye, invece, usa un escamotage giocoso e divertente, l’uso della prospettiva di un pesce che guarda il territorio dalle acque del fiume, per indagare i cambiamenti di un paesaggio fluviale come quello della Valsesia. Sul pelo dell’acqua Montagna sembra parlare di un paesaggio, della sua conformazione, ma anche della sua memoria, racchiusa maggiormente nelle immagini in bianco e nero, ma anche dei riti e delle pratiche ad esso collegate.
Il cibo è diventato un filtro molto importante per leggere il mondo e è esso stesso veicolo di importanti messaggi sociali, politici ed economici, un ponte ben saldo per parlare di questioni nodali per l’attualità come la demografia, il cambiamento climatico e la sostenibilità. Questa quinta edizione di FOTO/INDUSTRIA dà modo di parlarne ancora, con puntualità e acutezza visiva, scandagliando il tema nelle sue mille sfaccettature, per una consapevolezza che non è mai troppa.